Un’esperienza forte e arricchente, che ha coinvolto gli studenti delle Quinte del Liceo delle Scienze Umane, un viaggio a ritroso nel tempo all’interno della struttura dell’ex Manicomio di Volterra, di cui restano tanti padiglioni, alcuni in disuso e di fatto abbandonati, altri facenti parte attualmente del nosocomio di Santa Maria Maddalena.

Una “città nella città” fondata alla fine dell’Ottocento e che  già nel primo decennio del Novecento contava un migliaio di ricoverati distribuiti in trenta padiglioni. Con l’entrata in vigore della Legge Basaglia (Legge 180/1978), e dopo il precedente tentativo di riorganizzazione, modernizzazione e sperimentazione dell’operazione “Volterra ‘73”, ispirato dai venti di cambiamento del ’68,  l’Ospedale psichiatrico andò via via dimettendo i propri pazienti, preparandosi alla chiusura definitiva e trasformandosi, almeno per quanto riguarda alcuni edifici, in casa- famiglia per l’accoglienza di ex-degenti, nella prospettiva della riacquisizione dell’autonomia e della riabilitazione sociale. 

Il percorso, grazie alla guida Andrea Trafeli dell’Associazione Onlus “Inclusione Graffio e Parola” che ci ha accompagnati, hanno favorito il nostro contatto con la voce dei testimoni, con chi ha vissuto all’interno dell’Istituto e ha potuto raccontare, primo fra tutti Oreste Fernando Nannetti (1927-1994), recluso nell’ospedale psichiatrico di Volterra dal 1958 al 1973 con la diagnosi di schizofrenia, autore di un vero e proprio “libro di pietra” di circa 70 metri, inciso sui muri dell’Ospedale con la fibbia del suo gilet, quel gilet d’ordinanza che indossava chiunque varcasse il cancello del manicomio, nell’ora quotidiana di passeggiata, unica “evasione” consentita, chiuso com’era, con altri centinaia di uomini 23 ore su 24; nella pietra Nannetti, con una scrittura che sembra etrusca, intervallata da disegni, incide, con frasi enigmatiche, il racconto della vita, della sua vita e della vita degli altri internati, evocando l’universo infinito, la guerra, la morte, l’erotismo …

La vita all’interno dell’istituzione “totale”, per citare Erving Goffmann, dimentica la persona, l’abbandona al suo destino, le toglie l’identità e la dignità; la psichiatria, almeno fino agli anni Cinquanta del Novecento, non disponeva degli psicofarmaci, faceva ampiamente uso di pratiche mediche improntate alla contenzione meccanica ( camicie di forza, cinture o fasce di cuoio che legavano caviglie e polsi, sedie di contenzione) o all’isolamento ( camere di isolamento), e faceva ampio ricorso all’elettroshock … e anche con l’introduzione degli psicofarmaci la contenzione c’era, ma cambia natura …

Tutti questi strumenti sono esposti nel Museo Lombroso, parte integrante della struttura, che abbiamo visitato.

Grazie al rinnovamento della psichiatria, a partire dagli anni Sessanta del Novecento, sono state riviste le forme tradizionali di trattamento dei malati psichiatrici, un processo lungo che ha progressivamente ridotto il ricorso a metodi di contenimento fisico e che ha provato ad instaurare nuovi e più umani rapporti con i malati.

L’arte-terapia in questo nuovo corso ha avuto un ruolo fondamentale e nel Museo Lombroso troviamo molti quadri esposti, tutti realizzati dai pazienti che hanno frequentato l’Istituto … e il segnale del rinnovamento è ben indicato in una foto speciale, appesa tra tante foto d’epoca, in una parete di fotografie: nella foto c’è un comodino, accanto al letto di un degente in una lunga camerata: sopra qualche oggetto personale … una lampada, un piattino, una bambolina … Quell’uomo, o quella donna, non è più , ora, solo un numero tra tanti, privato del nome e dei suoi effetti personali … quell’uomo o quella donna si chiama Mario, Giovanni, Anna, Lucia… ha una vita e una storia …

Questa esperienza arricchisce il nostro percorso formativo e ci fortifica e ci rende cittadini consapevoli: la malattia mentale merita di essere non solo conosciuta e riconosciuta, ma trattata con rispetto, perché chi soffre ha bisogno di essere curato e sostenuto, rispettando la sua dignità  di persona.

Un grazie speciale a chi ancora oggi “dà voce a chi non ha mai avuto voce”, cioè ai “matti” che sono stati rinchiusi e dimenticati, al di là del cancello, un cancello che segna il confine così labile tra “normali” e non … ma chi può decidere davvero e in modo assoluto cosa sia la “normalità”???